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BRER-AI
IPERCONNESSIONE
Valentina Prada
prompt AI: "a man suspended by a rope holded by a clock, group of people holding smartphone, in a laboratory, jesus of nazareth, table, tablets, laptops, intense emotions, light and shadow, tension, spiritual, contemporary set"

Martirio di Sant'Erasmo
Sebastiano Ricci
1694 - 1697
La tela, assegnata all’artista Sebastiano Ricci, risulta essere nata da un prototipo di Alessandro Magnasco situato nella collezione privata Bertini a Firenze. L’attribuzione dell’opera ha creato numerosi dubbi, dovuti allo stretto rapporto tra Sebastiano Ricci e Alessandro Magnasco e ai loro scambi. Nelle biografie dei due artisti, scritte da Giuseppe Ratti, si parla del forte legame fra i due personaggi, definiti amici fraterni al punto che “parea che l’uno senza l’altro non potesse vivere”.
L'opera rappresenta il martirio di Sant'Erasmo, anche noto come Sant'Elmo, un vescovo e martire cristiano del III secolo. Sia il Martirologio geronimiano che il Martirologio romano fissano al 2 giugno la memoria di s. Erasmo, che subì il martirio sotto Diocleziano e Massimiano dopo innumerevoli torture. Al di là di questo dato, nulla di storicamente certo è attestato se non la presenza delle sue reliquie nella città di Formia, a cui accenna papa Gregorio Magno nel suo epistolario. Secondo la passio, da considerare leggendaria, Erasmo era nato e residente ad Antiochia. Quando scoppiò la persecuzione era già vescovo e si nascose per sette anni in una caverna del monte Libano. Ritornato in città fu arrestato e condotto al tribunale dell'imperatore che con lusinghe e tormenti cercò di persuaderlo a sacrificare gli dei, ma Erasmo rimase saldo nella fede e fu rinchiuso in carcere. Liberato miracolosamente, si recò poi nell'Illirico dove in sette anni convertì quattrocentomila persone. Successivamente venne nuovamente arrestato per ordine di Massimiano e fu condotto a Sirmio dove abbatté un simulacro e convertì altre quattrocentomila persone, molte delle quali furono immediatamente uccise. Erasmo, dopo essere stato tormentato orribilmente, rimase rinchiuso in carcere, dal quale fu liberato dall'arcangelo Michele che lo condusse a Formia, dove sette giorni dopo morì. Nel Medioevo il santo fu annoverato tra i cosiddetti santi Ausiliatori e viene oggi invocato specialmente contro le epidemie e le malattie dell’intestino, per il fatto che, nel martirio, gli sarebbero state strappate le viscere. I marinai invece lo venerano come patrono col nome di S. Elmo. In realtà non esistono fonti agiografiche che parlino di questo supplizio, ma è possibile che le prime raffigurazioni del santo lo ritraessero, quale patrono dei marinai, accanto ad un argano, che, nell'immaginazione popolare divenne strumento di martirio.
Il dipinto in stile barocco è ambientato in un ambiente scuro, che enfatizza il contrasto tra luce e ombra, generando toni duri e conferendo all’opera profondità e drammaticità. Al centro dell'immagine, punto focale, Sant'Erasmo è rappresentato nudo. Il suo corpo è teso in una posizione di sofferenza, con le braccia alzate e legate a delle corde. Un gruppo di uomini, i carnefici, rappresentati in forma dinamica, circondano il santo intenti a compiere la violenza. Attrezzi e strumenti di tortura sono sparsi intorno alla scena, inclusi quelli in un braciere ardente in primo piano a sinistra. In alto possiamo trovare due angeli sospesi, i quali osservano la scena con espressione di dolore e compassione stringendo fra le mani i simboli del martirio, ovvero della vittoria della fede: palma e corona. Il dipinto rappresenta il martirio come un atto di fede e sofferenza, dove la presenza degli angeli simboleggia la santità e la ricompensa divina per il sacrificio del martire, indicando che la sua sofferenza non è vana, ma glorificata in cielo. La scena è rappresentata nella sua crudità e con forte realismo facendo trasparire, anche grazie all’utilizzo della tecnica di chiaroscuro, una forte intensità emotiva. I forti contrasti enfatizzano i corpi e i dettagli, creando un effetto teatrale e dando priorità a specifici elementi, come il primo piano del martire. In aggiunta, l’intera opera è caratterizzata da un forte dinamismo dei personaggi, caratteristico dell’arte barocca, che evocano un sentimento emotivo intenso, teso e drammatico.

Iperconnessione
Valentina Prada
2024
Noi crediamo di avere tutto sotto controllo, invece sono altri o altro ad avere noi sotto controllo.
L’opera, rielaborazione del dipinto realizzato da Sebastiano Ricci negli anni 1694-1697 “Martirio di Sant’Erasmo”, partendo da una prima fase di indagine sul significato di martire, ha cercato di riproporre in chiave contemporanea, strettamente in connessione con la società di oggi, con le sue caratteristiche e specificità, il concetto di martirio in ottica di una critica sociale. Martire, da definizione dell’Enciclopedia Treccani, è “chi si sacrifica volontariamente, con piena coscienza delle pene o dei pericoli cui va incontro, per un motivo religioso, un alto ideale, una generosa causa e sim.”. La Chiesa ha definito entro ben determinati limiti le circostanze perché si attribuisca alla morte di un cristiano il carattere di martirio: “è la morte violenta dovuta a una volontà responsabile (estrinseca e distinta da quella della vittima) e accettata dal cristiano per un motivo di fede o di virtù morale riferita o riferibile a Dio, con piena coscienza del sacrificio, affrontato con fortezza e serenità d’animo aiutate da un dono sovrannaturale”. Ancora, in senso figurato, martire è una persona che vive in continue tribolazioni, che sopporta continui maltrattamenti. Nella prima parte della definizione viene citato “un alto ideale”. Andando ad approfondire il significato di ideale, si denota come esso sia un modello di perfezione appartenente a una dimensione astratta o avulsa dalla realtà, che funge tuttavia da sprone all'agire pratico al fine di concretizzarlo in una manifestazione tangibile o per conformare ad esso la propria condotta. A quale alto ideale ci si sacrifica volontariamente, a quali pene o pericoli la società oggi va incontro con piena coscienza? Ogni giorno ci vediamo responsabili nel sacrificare la nostra identità, il nostro essere unico e sacro, in nome di un “alto ideale” che è l’essere sempre connessi, l’iperconnessione. La rivoluzione digitale avrebbe dovuto portare con se semplificazione e libertà, aiutandoci a risparmiare tempo introducendo processi di automazione in diversi ambiti, ma sembra aver sortito un effetto opposto. La tecnologia ha portato con se il mito dell’accelerazione: ci permette di impegnarci contemporaneamente su più fronti moltiplicando le intensità e gli stimoli e travalica i confini che separano la sfera privata e quella prettamente lavorativa. A tutto questo noi rispondiamo come persone frenetiche, prive del controllo del proprio tempo, ostaggi del nostro smartphone, che ci vede allontanati dall’esperienza autentica, dalla vera comunicazione umana. Abbiamo bisogno di riconoscere che siamo vittime di un modello che ci siamo autoimposti “prigionieri del mito dell’accelerazione che consideriamo tipico della nostra epoca, un modello di vita frenetica visto come status symbol”, come discusso nel libro “La tirannia del tempo” di Judy Wajcman.
L’espressione della società contemporanea all’interno dell’opera è stata realizzata tramite l’utilizzo di una piattaforma digitale che a partire da un testo e un’immagine di riferimento rielabora le informazioni generando alternative possibili di rappresentazione. La rappresentazione scelta come riferimento e opera finale, dal nome “Iperconnessione”, vede riprendere alcune caratteristiche compositive del quadro originario con cui mantiene una relazione forte, di significato e di struttura. L’immagine mostra una scena ambientata in un’epoca contemporanea rispetto all’opera originale, in un ambiente che ricorda un laboratorio, ma ne mantiene i caratteri compositivi. L’utilizzo del chiaroscuro conferisce profondità alla scena, cupa e intensa, ponendo in evidenza il soggetto delicatamente illuminato posto al centro della rappresentazione. L’uomo in primo piano, riflessivo, è raffigurato come vittima di se stesso e della società, i suoi carnefici disposti attorno a lui non sono contraddistinti da movimento e dinamicità, non stanno ponendo fine alla sua esistenza violentemente e fisicamente, ma ne concorrono con strumenti tecnologici alla fine morale e spirituale. L’uomo, martire, è un singolo, ma vuole rappresentare la condizione dell’intera società, che risulta essere vittima di distrazione e distanza risultando sempre connessa. La tecnologia ha capito come nutrire il nostro bisogno di appartenenza: il consenso ci fa sentire gratificate e gratificati, accettate e accettati, ci conferma che facciamo parte di un gruppo. La riflessione posta potrebbe allargarsi a considerare in senso ampio, un affievolirsi del confine tra le figure di martire e carnefici. Difficile stabilire in merito all’accezione di “piena coscienza” se ad oggi la società sia pienamente cosciente del peso dei rischi che corre. Quello che è certo è che ad oggi il “sacrificio” continua imperterrito. Infine, altro elemento compositivo, è la presenza di due orologi che vanno a sostituire gli angeli presenti nel quadro originale. Le figure riassicuranti che portano con se i simboli dell’atto di fede, qui sono sostituiti metaforicamente nel tempo, immagine che vuole farci riflettere sulla natura del tempo e sulla libertà.
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